Amilcare Zavatti

Vicende edilizie nel circondario della Biblioteca Malatestiana
in Biblioteca Malatestiana, Relazione per l'anno 1925, Cesena 1926

 

La piazza Bufalini non è sempre stata una piazza, né vi hanno sempre verdeggiato le aiuole. Un tempo vi si ergeva una gran chiesa dedicata a S. Francesco d'Assisi, e la cui abside, superstite alla demolizione della navata, si nasconde tuttora, mutilata e guasta, dietro l'alta muraglia che limita la piazza a levante. Ben altro sfondo avrebbe offerto al giardino quell'abside abbandonata al flagello degli anni: piante rampicanti su per i muri rossastri e per gli archi gotici, giuochi d'ombra e di luce mutevoli col giro quotidiano del sole.
Potrebbe interessare ai cultori delle memorie patrie il sapere quando e come quest'edifizio sorgesse. I Francescani furono introdotti in Cesena nel 1226, o forse qualche anno prima, e vi acquistarono d'un tratto benevolenza e prestigio. Era consentaneo all'indole dei tempi che l'austera virtù degli umili fraticelli esercitasse, su quella società, agitata dalle più ardenti passioni, un'irresistibile influenza morale. L'ambiente cesenate, del resto, non era nuovo agli esempi della vita penitente e santa. A tacere di più lontani ricordi, fin dal principio del secolo S. Giovanni Bono viveva ritirato nell'eremo di Butriolo, nella valle della Cesuola, e vi rimase per quarant'anni entro una grotta profonda, ove - dicono i cronisti - fu visitato da S. Francesco d'Assisi e da S. Domenico di Guzman. Altri santi personaggi, in quel torno o poco appresso, lasciarono, nella tradizione locale, memorie e tracce di sé: S. Pietro Martire, S. Tomaso d'Aquino, S. Bonaventura, S. Antonio da Padova, S. Filippo Benizi. La vita di quel secolo è un intrico di vicende drammatiche e di episodi violenti; ma sullo sfondo del quadro campeggiano queste figure soavi, che spirano la calma del paradiso.
Non è noto dove i Francescani cesenati avessero stanza nei primi giorni; ma ben presto, in un orto della mensa vescovile e con elemosine dei fedeli, costruirono alcune celle e una chiesuola che si chiamò S. Maria dell'Orto, e nella quale fecero dipingere sul muro un'immagine della Vergine. Riconosciamo esattamente il posto di questa chiesa nel piccolo edifizio a due piani, ora proprietà Bagioli, che prospetta il vicolo Pasolini.

Il luogo dato ai frati era allora fuori della città, poiché la cinta passava presso la chiesa di Boccaquattro, dove aprivasi la porta Ravegnana. Il forte dislivello, che oggi ancora sussiste fra gli estremi della via Montalti, indica verso il punto di mezzogiorno un alzamento artificiale, dovuto alle vicende edilizie della zona interna e dagli avanzi del terrapieno e delle altre opere di difesa. Il livello originario del terreno era infatti molto più basso, come apparve nel 1879, allorché, fabbricandosi la palazzina a sud della chiesa di Boccaquattro, si scoperse, alla profondità di oltre due metri sotto il piano dell'attigua piazzetta, un musaico pavimentale bianco listato di nero sopra uno strato di grossi ciottoli. Il ricordo di questo avanzo romano permette di stabilire con sufficiente approssimazione l'antico livello, ed offre un dato topografico prezioso per ricomporre, la configurazione naturale del suolo.
Piccola era dunque la chiesa di S. Maria dell'Orto, piccola e povera, come volevano i costumi dell'ordine. Ma dappertutto la crescente influenza della corporazione sulla vita civile, e la consapevolezza del valore altissimo dell'arte nel mantenere e propagare il prestigio morale, indussero di buon'ora i Francescani ad una men rigida osservanza delle consuetudini edilizie claustrali. Così, cresciuti anche di numero, dopo non molti anni essi dovettero trovare qui chiesa e convento troppo inferiori all'importanza dell'ordine ed alle esigenze dei fedeli, e volsero il pensiero alla costruzione di un altro e più vasto edifizio.
Con istrumento del 1258 il vescovo nostro Manzino de' Manzini, de mandato ac licentia del papa e dell'arcivescovo di Ravenna, concede a frate Alberto da Faenza dell'ordine dei Minori la facoltà di erigere il convento in una possessione appartenuta alla mensa vescovile di Cesena nella contrada della Trova, e già prima acquistata dagli stessi frati essendone procuratore un Michele da Tura. Questo fondo, confinante col fossato della città, è senza dubbio l'orto nel quale era stata costrutta la chiesuola di S. Maria, e doveva comprendere, oltre lo spazio occupato dall'attuale palazzo degli studi, dalle biblioteche e dalle loro adiacenze, anche l'area della casa e del giardino di proprietà Bagioli con qualche prossima appendice. La chiesa poi non può essere che quella stessa alla quale i cronisti assegnano la data iniziale del 1247, e che, intitolata al Poverello d'Assisi, fu consacrata soltanto la Domenica di Passione del 1290.
Del convento d'allora, nulla o quasi nulla è rimasto; quanto alla chiesa, anche senza l'esame degli elementi superstiti è naturale riconoscervi un prodotto della scuola gotico-monastica, che i due ordini mendicanti avevano formata studiando gli esemplari della scuola cistercense, e adattandoli ai materiali ed ai metodi costruttivi delle singole regioni non meno che al sentimento artistico italiano.
Ampia, bassa, a tetto fuorché nella tribuna, la chiesa occupava in largo quasi intera la piazza attuale, prolungandosi verso ponente fino a tutto il corpo centrale del fabbricato scolastico, dove ha sede il liceo. L'interno era ad una sola nave con abside poligonale, e la luce filtrata dalle finestre acute doveva, nella vastità dell'ambiente, diffondere appena un malinconico chiarore. La fronte, colla porta fiancheggiata da due finestre e sormontata forse da un occhio circolare, dominava il piazzale o cimitero. Mancano indizi per figurarsi la primitiva decorazione dell'edificio; nondimeno, i pochi cenni precedenti sembrano favorire l'opinione di un'austera semplicità. Onde è probabile che nelle lotte famose tra il partito di frate Elia, protetto dal papa e dall'imperatore, e gli Zelanti, seguaci dello Speculum perfectionis di frate Leone, i Conventuali di Cesena si attenessero ai temperati precetti del Capitolo Generale di Narbona. Accanto alla pratica della povertà, nell'ordine minoritico si venne fino da' suoi primordi determinando, non senza contrasti, l'amore della scienza. Si vuole che lo Studio del convento cesenate rimonti al Secolo XIII, e che sotto il generalato del famoso nostro fra Michelino, ai tempi di Ludovico il Bavaro, fosse già salito in grande riputazione.
È anche noto che in progresso di tempo i suoi maestri o reggenti furono aggregati alla locale università come professori onorari, e che il Comune destinò loro un assegno affinché, mentre leggevano ai frati dell'ordine, permettessero ai chierici ed agli altri studenti delle pubbliche scuole di assistere alle loro lezioni. Tale essendo l'importanza assunta dallo Studio francescano, era naturale fra gli studiosi il desiderio che in quel convento sorgesse una pubblica libreria; ma per lungo tempo i mezzi mancarono. Intanto si eran venuti raccogliendo una cinquantina di codici; altri poi, per il valore di circa cinquecento fiorini, ne radunò Malatesta Novello, che intendeva donarli in perpetuo.
Non occorreva oramai che la sede. Supplicato dai frati, papa Nicolo V nel 1450 concesse al preposto della chiesa cattedrale, amministratore dell'eredità di un Sante Graccieri, la facoltà di distrarre dall'eredità stessa la somma di duemila lire riminesi per la costruzione dell'edifizio. È certo però che il vaso della biblioteca e gli annessi locali sorsero per esclusiva munificenza di Malatesta Novello, onde sembra verosimile che le duemila lire riminesi venissero impiegate negli altri lavori del convento.
Nel 1447 Matteo Nuti, fanensi ex urbe creatus Dedalus alter, iniziò, compiendola nel 1452, una lunghissima ed alta mole a due piani quasi parallela alla chiesa di S. Francesco, ma verso nord, presso S. Maria dell'Orto, non senza impegnare nelle nuove strutture murali gli avanzi tuttora evidenti di un più vetusto edifizio. Con un piccolo vano contenente la scala, poi demolita, ne divise il pianterreno in due grandi aule a doppia navata: semplice e grave quella ad oriente, svelta ed ornata l'altra, che si arricchì di pitture in terra verde e fu il refettorio del convento. Al primo piano, verso levante, sorse la biblioteca in forma di galleria a tre navate diseguali, divise da sottili colonne di marmo con archi a tutto sesto, e illuminate da finestrine archiacute. L'altra aula superiore, a due navate, si estese anche sul vano della scala, così che l'ultima campata, dinanzi alla libreria, parve dilatarsi per rispetto in un ampio vestibolo. Antiche memorie affermano questa sala essere stata costrutta per dormitorio dei frati studenti, ma piacerebbe figurarsela come sede dello Studio francescano. All'esterno poi, la vasta cortina rosso-bruna in mattoni scoperti non aveva altro decoro che le piccole aperture a contorni marmorei o laterizi e la cornice in terracotta forse policromata, ricca, elegante, ma timidissima di aggetto, e sulla quale ci permettiamo rischiare l'opinione tutta nostra di un coronamento ad attico merlato.
È certo del tempo stesso, ma compiuto nel 1493, il chiostro attiguo verso nord, o secondo chiostro, ad arcate semicircolari sostenute da colonnine di marmo, con capitelli variamente ornati di fogliami e simboli araldici, del signore di Cesena, ed i laceri avanzi conservano ancora sulle pareti interne le tracce di antiche pitture.
Tutte queste opere del periodo malatestiano recano l'impronta dell'arte ingenua e pura del rinascimento alle sue origini. Dappertutto una freschezza di cose primitive, una giocondità pagana, una serenità primaverile; e la sorvivenza di motivi medioevali frammezzo alle forme nuove o rinnovate è piena di un dolce fascino, come l'ultima fioritura di una pianta moribonda. Serbando per altro studio i particolari notabili in questa preziosa reliquia dell'umanesimo, non taceremo che anche del primo chiostro, fra la chiesa e la libreria, difettano le notizie sicure. Le scarse vestigia ancora esistenti mostrano invero i caratteri estetici della rinascenza, e sembrano confermare l'asserzione che fosse iniziato lo stesso anno 1493 nel quale compivasi il claustro malatestiano. Con un atto del 19 giugno 1506 lo scultore Tomaso Fiamberti da Campione, insieme a Giovanni Ricci da Sala, si obbliga a scolpire nove colonne per il convento di S. Francesco in Cesena: erano forse destinate a quel chiostro.
Mentre l'austera nudità del tempio si ornava internamente di altari, pitture, sepolcri, di fuori altre costruzioni sacre si addensavano man mano all'intorno, come attratte in quell'oasi di pace. Gianghino Calisesi, ultimo di un'antichissima e nobile famiglia cesenate, che aveva dato un celebre arcivescovo a Ravenna, cronisti, governatori e guerrieri, con testamento del 3 ottobre 1424, prima di rendersi frate servita, lasciò quasi tutti i suoi beni all'ospedale, e, morendo più che ottuagenario nel 1446, fu sepolto all'esterno della chiesa di S. Francesco presso l'estremità meridionale della facciata, in una celletta ove poi venne dipinto un crocifisso con S. Margherita da Cortona. Anche Malatesta Novello, come lo zio Andrea che fin dal 1416 velo aveva preceduto, trovò l'eterno riposo all'ombra di quel convento da lui tanto amato. Una sola e modesta lapide sul fianco esterno a mezzodì, presso la porta laterale della chiesa, ricordava ai passanti questi due principi benemeriti della nostra città.
Per concessione dei padri, nel 1470 la compagnia della Croce eresse sul lato settentrionale del cimitero di S. Francesco una chiesuola, che fu poi chiamata "la Crocetta", e dove la stessa compagnia si trasferì dalla chiesa di S. Paolo, allora esistente nella via oggi Zeffirino Re. Di forma bislunga, bassa per lasciare di sopra il posto all'abitazione del custode o massaro, ebbe molto più tardi le pareti e la falsa volta dipinte per mano d'artisti locali.
Oltre un cinquantennio appresso, nel 1526, Bartolomeo Lottarini e Giovanna Lisardi, sua moglie, costruirono sul lato occidentale dello stesso cimitero, quasi di fronte alla porta maggiore della chiesa, un piccolo oratorio dedicato a S. Giobbe, la cui immagine vi fu rappresentata con rozza pittura sull'altare e sulla porta all'esterno. Ogni anno ' dicono i cronisti ' il popolo cesenate vi accorreva per raccomandare al santo i bachi da seta, e glie ne offriva il primo frutto. Sotto Paolo V vi fu eretta la confraternità dei SS. Crispino e Crispiniano o dei calzolai, che vi restò fino al 1632, passando poi alla distrutta chiesa di S. Maria delle Grazie, già delle Convertite, in via Tavernelle.
L'età d'oro e l'ultima fase della rinascenza attesero a completare e decorare quel vasto complesso di edifizi, e però riconosciamo nel primo quarto del seicento il loro periodo migliore, come quello che vide tutte insieme le opere d'arte ivi accumulate dalla pietà religiosa e dal fervore umanistico in quattro secoli, mentre erano ancora lontani gli attentati alla loro integrità.>
La vista del convento doveva essere, allora più che mai, pittoresca e suggestiva a mezzogiorno, la mole severa del tempio di S. Francesco contornata di chiesette e di sepolcri, bruna nella sua vecchia cortina di mattoni, accigliata nel profilo nordico delle lunghe finestre ogivali. Poi, la svelta fabbrica della biblioteca malatestiana, colla sua gentile architettura di terracotta battuta festosamente dal sole, sorrisa dalle grazie dell'arte rinata. E tra l'una e l'altra massa, e di là dalla libreria, i chiostri pieni di pace, di silenzio e di verde. A ponente, la chiesuola di S. Maria dell'Orto e i fabbricati di servizio; oltre il secondo chiostro, il giardino dei padri riboccante di verzure. Era una piccola città propizia alle alte aspirazioni dello spirito, un'isola di tranquilla felicità in mezzo alla vita agitata del secolo.
Purtroppo la bella armonia delle costruzioni francescane non doveva durare lungamente. La stessa evoluzione del gusto e dell'arte verso le pompe del barocco favoriva i propositi di riforme; cui ragioni statiche, o nuovi bisogni, o desideri nuovi consigliavano. L'oratorio di S. Giobbe era divenuto a poco a poco un ricetto di persone e di cose immonde, sì che il guardiano del convento nel 1656 ne ordinò la demolizione.
Interrotto il lavoro per viva opposizione d'interessati, fu ripreso dipoi: troviamo infatti che verso il 1680 l'oratorio era quasi tutto diroccato, e venne raso al suolo. Più tardi, a mezzo gennaio del 1730, furono demolite due file di nobili sepolture nel primo chiostro, che l'arte funeraria aveva gradatamente invaso movendo dall'attigua chiesa, e dove anche erano stati dipinti nelle lunette la vita e i miracoli di S. Francesco. I padri maturavano intanto più vasti disegni. La gran chiesa duecentesca, per quanto arricchita di opere d'arte nel corso di cinque secoli, doveva allora sembrare di un gusto barbarico.
E quando si aggiunga che la solidità della sua compagine presentava, se ciò è vero, qualche difetto, non sarà difficile comprendere come i frati cogliessero di buon grado l'occasione, od il pretesto, per ricostruirla nelle forme care a quell'età. La demolizione fu iniziata nel 1750. Due anni appresso Giuliano Copioli, architetto e perito muratore della città di Rimino, con privata scrittura del 1. agosto s'impegnava per la rifabbrica dell'edifizio, che venne infatti eseguita rispettando qualche vecchia struttura, e compiuta nel 1758.
Un avvenimento ben triste è segnato nella storia dell'illustre cenobio sotto la data 1784: la soppressione dell'antico Studio. Ma l'insegnamento vi sarà ripreso sotto altra forma, con altri intenti, pochi anni dopo, e la breve interruzione non conterà nulla di fronte a una durata di secoli.
I frati vollero poi ricostruire una parte del loro convento, e vi lavorarono intorno dal 1785 al 1794, abbattendo fra altro il lato orientale del secondo chiostro per erigervi un corpo di fabbrica a due piani. Al tempo stesso attribuiamo la demolizione del lato meridionale e il rinforzo del muro contiguo, strapiombato lungo un tratto del refettorio e dell'aula sovrastante. Dev'essere anche di quel periodo il prolungamento verso ovest del grande fabbricato malatestiano: un solo locale a pianterreno, coperto da quattro volte a crociera con pilastro centrale, servì come cucina al convento; non sappiamo a quale uso fosse destinato il piano superiore, che oggi è la sala di lettura della Biblioteca Comunitativa.
Pareva che con queste opere di rinnovamento edilizio la famiglia francescana si preparasse a vivere lungamente ancora. Per contro, la Francia rivoluzionaria colla legge fiorile dell'anno VI sopprimeva le corporazioni religiose, e però, seguita l'occupazione della città da parte delle truppe francesi, nel 1798 la chiesa di S. Francesco era chiusa colle prossime chiesuole della Crocetta e di S. Maria dell'Orto. L'anno successivo, venuti in Romagna gli Austriaci, chiesa e convento furono restituiti, ma per poco dacché, avendo i Francesi tra il 1800 e il 1801 rioccupata la città, i frati furono nuovamente colpiti dalla legge di soppressione, ed uscirono dall'antica dimora per non tornarvi più mai. Che nella rifabbrica della chiesa e del convento prima, e poi nella loro soppressione andassero perdute o disperse memorie e cose antiche, non potrà recare sorpresa.
Quasi non bastasse il vandalismo degli uomini, vi si aggiunse l'opera edace del tempo. Nel luglio del 1799 cadeva infatti una parte del primo chiostro contigua alla cappella di S. Antonio, che era la seconda a sinistra entrando in chiesa dalla porta maggiore.
E già il vecchio coro di legno nero, ornamento della cappella centrale, era caduto in pezzi fin dal tempo della ricostruzione dell'edifizio. Il magnifico pulpito di marmo, che Nicolò II Masini vi aveva eretto nel 1599 su disegno di un altro Masini : Francesco, l°autore della nostra superba fontana ' fu tolto nel 1798 dai discendenti di Nicolò stesso, che ne avevano sostenuto il diritto di proprietà. Similmente la famiglia Ghini, quale erede degli Albizzi, rivendicò il quadro di S. Margherita da Cortona, del Guercino, venduto ad un romano molto più tardi, nel 1863. L'altare sul quale il dipinto era posto, e che il cardinale Francesco degli Albizzi ' uno dei giudici nel processo di Galileo ' aveva fatto scolpire con ricchezza di marmi e di lavori, passò alla chiesa del Suffragio, dove tuttora si vede addossato alla parete del lato nord con un quadro della Concezione e di S. Antonio da Padova.
Ricordano le vecchie carte un Baldassarre Pedroni, sepolto nella chiesa di S. Francesco nel 1414 entro Un sarcofago di marmo, sul cui prospetto a bassorilievo era egli figurato assiso sulla cattedra e circondato da scolari, essendo stato lettore di filosofia nell'università di Bologna. Se ne conserva appena la lapide con l'epitaffio in distici latini incisi a caratteri gotici. Solo il ricordo rimane di un'altra lapide, nella quale i nostri tardi cronisti non seppero leggere il testo dell'inscrizione, scolpita nelle forme bizzarre della calligrafia medioevale. Stando a qualche scrittore di cose locali, anche Alessandro Pedroni, fratello di Baldassarre e prima insegnante di medicina a Bologna, poi di filosofia nell'università patria, ebbe sepoltura nella stessa chiesa in un avello marmoreo con sopra la sua figura scolpita. Dopo l'espulsione dei Frati Minori, l'urna fu posta come abbeveratoio presso il pozzo nel cortile rustico dell'ex convento, ed il coperchio, passati molti anni, fu venduto ad un antiquario romano. Non si sa invece qual sorte toccasse alla pila dell'acqua santa, che nel 1419 un Anteus quondam Pauli Campsor de Caesena aveva fatto lavorare in marmo a Firenze pro remedio animae suae et suorum, come l'inscrizione diceva. Di Vincenzo Toschi, medico e filosofo insegnante all'università di Padova, morto nel 1515 e tumulato entro un'urna sopra la porta laterale della chiesa, dove anche era stato dipinto il suo ritratto, non furono almeno disperse le ceneri. Dapprima riposte in un andito contiguo al coro, vennero poi a principio dell'ottocento trasportate in duomo presso l'artistico altare di S. Leonardo, che la consorte Giulia, sorella ed erede di Camillo Verardi, aveva commesso nel 1510 per adempiere l'ultima volontà del fratello defunto.
Troppo ancora dovremmo seguitare, se l'indole dello scritto non ci dispensasse da un elenco più lungo ed increscioso. Ma non si può tacere una parola di rimpianto pei ricchi doni di quei Malatesta, il cui civile dominio segna il periodo migliore della storia cesenate, ed ai quali ritorna sempre la nostra grata memoria. Dov'è la rosa d'oro, che papa Alessandro V aveva concessa ad Andrea Malatesta nella quarta domenica di quaresima del 1410? Dove la croce e i candelieri in cristalli di monte legati in argento, ricordo di Malatesta Novello?
Siamo nel 1802, in piena repubblica, da Cispadana divenuta Cisalpina e da Cisalpina Italiana. Leandro Marconi, forbito architetto ed eccellente pittore di prospettiva, compone un progetto di lavori, eseguiti nel 1804, per allestire accanto alla Malatestiana un locale dove raccogliere e ordinare i libri delle soppresse fraterie, e creare così la biblioteca che fu poi detta Comunitativa. Nel salone a due navate del piano superiore abbatte l'interna struttura quattrocentesca, e con un muro trasverso lo divide in due aule: quella a ponente per la nuova libreria; l'altra, fra quest'ultima e la Malatestiana, destinata come atrio comune ad entrambe. Per ottenere l'accesso e la comunicazione dal piazzale di S. Francesco, converte in corridoio un vecchio dormitorio a due bracci uno sopra il lato occidentale del primo chiostro; l'altro, sopra il lato meridionale, aderente alle nuove aule. Demolisce inoltre una loggia, che, sottraendo luce alle tre prime finestre della navata boreale della Malatestiana, collegava il suo vestibolo alla parte del convento eretta nel secondo chiostro verso la fine del secolo precedente, e che era stata frattanto ridotta a caserma come tutto il resto, non esclusa la stessa biblioteca.
Estende infine l'opera sua a questa grande aula, donde erano stati tolti nel 1798 libri e plutei, trasportati dapprima nella chiesa poco appresso abbattuta di S. Severo - detta anche di S. Filippo perché annessa al convento omonimo dei Padri dell?Oratorio - e subito dopo, insieme ai libri dei soppressi conventi, nell'ospedale di S. Tobia, oggi canonica della cattedrale. Per buona sorte, nell'augusto vano della biblioteca quattrocentesca l'artista si limita a dipingere ad olio a finto marmo le mezze colonne in laterizio addossate ai muri perimetrali, ad imbiancare il vecchio intonaco verdastro, a segnare sopra la porta un'inscrizione commemorativa ed a frescare tre prospettive sulla parete di fondo. Ma l'atterramento dell'architettura interna nell'aula a due navate, proposto ed attuato dal Marconi senza necessità, non si scusa neppure col gusto dei tempi, e getta un'ombra sul suo nome.
Pare che il genio del luogo vegliasse a conservare almeno la sede della storica libreria se una deliberazione consigliare del 4 maggio 1805, che avrebbe potuto essere fatale rimase inadempiuta. Passando lo Stato dalla repubblica alla monarchia, il consiglio comunale deliberava per acclamazione di dedicare al nuovo sovrano non solo le due biblioteche - nel 1804 restituita l'una e trasportata l'altra alla propria sede - ma anche le pubbliche scuole, che stavano per sorgere lì accanto sulle rovine dello Studio francescano, e che vennero infatti inaugurate il 17 novembre del 1807. E fra altro stabiliva "Sarà pomposamente eretta da' suoi sepolti cardini la facciata della Biblioteca Malatestiana". La deliberazione fu espressa in questa forma altrettanto vaga quanto ampollosa; ma l'esempio dei guasti perpetrati l'anno addietro era troppo eloquente, perché non dovesse temersi una nuova manomissione dell'edifizio.
In quel torno un Giuseppe Pasini, venuto in possesso dell'estrema parte settentrionale dell'ex convento colla soppressa chiesuola di S. Maria dell'Orto, vi costruì la propria abitazione, oggi proprietà Bagioli, ed intorno alla porta esterna fece porre lo stipite di marmo già esistente all'ingresso della foresteria nel monastero di S. Croce, che si andava demolendo nel posto ove poi sorse il cimitero urbano.
Fra le memorie del 1807 troviamo la demolizione del campanile ed il trasporto del monumento sepolcrale di Jacopo Mazzoni, difensore di Dante, amico del Tasso e di Galileo. Questo ricordo marmoreo, che la vedova Pasolina Pasolini e la figlia Giulia avevano fatto scolpire a Venezia, trovavasi dapprima nella chiesa dei Frati Domenicani, donde nel 1708 le truppe tedesche, qui di passaggio durante la guerra di successione spagnuola, asportarono la corona dottorale e i due genietti che la sostenevano sopra il busto del sapiente cesenate, e che oggi si credono in un museo di Londra. Trasportato nei primi giorni di febbraio del 1798 nella gran sala del Municipio, nel 1807 fu tolto di là e collocato nell'atrio delle biblioteche, ove si lasciò anche dopo mutata la destinazione dell'aula. Ci sia consentito di ricordare che nello stesso anno Pietro Giordani pronunziò in quella sala l'orazione in morte di monsignor Nicolò della Massa Masini e il panegirico del Bonaparte per il suo giorno onomastico. Il 15 agosto del 1812, quando la potenza di Napoleone era giunta all'apogeo, né si scorgeva prossima la sua caduta, fu celebrata in tutto l'impero la festa dell'invitto conquistatore. Nel dipartimento del Rubicone la solennità assunse una forma locale, esaltando, insieme al nome dell'imperatore, la memoria di Malatesta Novello. Le ceneri del principe umanista, tratte dalla tomba e chiuse in una piccola e rozza urna di legno insieme ad una pergamena con memoria dettata in latino dal savignanese Basilio Amati, furono deposte entro una nicchia nel muro di fondo della sua diletta biblioteca, con sopra la lapide funeraria del secolo XV ed una vecchia croce di ferro proveniente dallo stesso sepolcro. Molti anni dopo, l'urna fu sostituita da un'altra lavorata dall'intagliatore cesenate Filippo Salvatori nel 1872, e lasciata scoperta collocando la lapide più in basso.
La costruzione conventuale di fine secolo XVIII si addossava al fianco nord dell'edifizio malatestiano, chiudendo otto finestre nell'attigua navata della libreria. Un provvido consiglio del 1817 permise di rimetterle in luce, abbassando d'un piano l'estremità meridionale del tetto in quel fabbricato, è ricostruendo la scala sottostante in altro posto attiguo, dove anche oggi si trova.
Nel 1832 il su ricordato Giuseppe Pasini, volendo ridurre ad abitazione la soppressa chiesuola di S. Maria dell'Orto, concesse ad alcuni fedeli di asportarne l'antica immagine della Vergine dipinta sul muro, la quale fu posta, ed ancora si conserva, nel vicino oratorio di S. Martiniano nella Trova di Mezzo, oggi contrada Sacchi.
Poi, il 13 marzo del 1837, si comincio ad atterrare la ex chiesa della Crocetta col primo braccio del corridoio d'accesso alle biblioteche e il sottostante lato del chiostro, per costruirvi un fabbricato scolastico sui disegni dell'ingegnere Giovanni Marino Argentini. Si desiderava da alcuni che quest'edifizio, invece di estendersi sul lato nord del piazzale di S. Francesco, sorgesse in direzione della facciata della chiesa, fra essa medesima e il fabbricato delle librerie. Così, liberando tutta l'area a ponente, si sarebbe formata insieme al cimitero una piazza, nel cui mezzo avrebbe dovuto innalzarsi un obelisco in onore del cardinal legato Nicola Grimaldi. Peraltro la proposta non ebbe seguito, ed il progetto Argentini passò in esecuzione, così che nel 1839 poterono collocarsi nel nuovo fabbricato due lapidi: una, con inscrizione di Bartolomeo Borghesi e la data 1838, nell'atrio delle scuole attiguo al piazzale di S. Francesco; l'altra, con epigrafe di Cesare Montalti, nell'atrio laterale verso la ex Madonna dell'Orto, dinanzi ai locali desinati al Monte di Pietà, che ivi si trasportava dalla via oggi Tiberti.
Due anni più tardi, nel 1841, fu deliberata e intrapresa per ragioni statiche la ricostruzione del secondo braccio del corridoio d'accesso alle biblioteche e della parte di chiostro sottostante, colla direzione dell'illustre patriota ingegnere Vincenzo Fattiboni
Alle vecchie crociere fu sostituito un solaio ed alle arcate un muro continuo, rimovendo le primitive colonne di marmo, che quasi tutte andarono col tempo disperse. E poiché il corridoio preesistente prolungavasi oltre la fronte della Malatestiana, offuscandone le prime sette finestre della navata australe, nella ricostruzione esso venne opportunamente accorciato, e restituita la luce a quelle antiche aperture. Segue la più grave tra le vicende di queste vecchie costruzioni conventuali. Sulla fine del 1842 il Comune stabiliva di abbattere la soppressa chiesa di S. Francesco, cedutagli nel 1821 con gli avanzi dell'annesso cenobio dal vescovo cardinale Castiglioni, il futuro Pio VIII, ed il 15 febbraio del 1844 s'iniziavano i lavori per convenirne l'area in una piazza. Non rimase che l'abside scapitozzata e manomessa, vestita ancora delle sue forme duecentesche, e con un muro fu separata dalla piazza; ma il buon materiale ricavato dalla demolizione trovò impiego nel Teatro Comunale, che stavasi allora costruendo su disegno di Vincenzo Ghinelli nel luogo del vecchio Teatro Spada.
Frattanto, nel novembre del 1843, si collocava nella Biblioteca Comunitativa il busto di Cesare Montalti con una inscrizione composta da Luigi Serafini.
Nel 1860, divisata dal governo italiano l'istituzione di un liceo a Cesena, l'amministrazione municipale deliberava di apprestarne la sede, continuando la fabbrica delle scuole sul lato nord della piazza creata con l'atterramento della chiesa di S. Francesco.
L'ingegnere Davide Angeli, incaricato del progetto, si studiò di coordinare anche esteticamente l'opera propria a quella dell'ingegnere Argentini, costruendo di seguito ad essa, sull'area del primo chiostro, un corpo centrale a paraste ioniche, e ripetendo simmetricamente dalla parte opposta il fabbricato del 1837, per conseguire nel prospetto una certa unità architettonica.
Si preparavano intanto nuove trasformazioni nell'ordinamento delle biblioteche. Il Demanio Nazionale, che fin dal 17 dicembre 1866 aveva preso formale possesso del monastero di S. Maria del Monte in virtù della recentissima legge di soppressione, passò la biblioteca e il medagliere di Pio VII al Comune di Cesena, che deliberò di collocarli, e li collocò infatti nel 1868, nella sala interposta alle due librerie, e che prese il nome di Biblioteca Piana. Ne furono tolti allora il busto e la lapide con data 1728 del patrizio cesenate e protonotario apostolico Ludovico Ugolini, che un tempo si trovavano entro la vecchia chiesa di S. Francesco, addossati al muro del prospetto, sotto la finestra a mano manca entrando dalla porta maggiore. Alle vecchie aperture quadrilunghe successero nel muro di tramontana due finestre a lunetta. Fu trasformata in sala di lettura l'ultima a ponente, sgombrandola dai libri che l'avevano occupata, e vi furono apposti sulle pareti i medaglioni degl'illustri cesenati, che prima adornavano la sala intermedia allestita per la Piana. In quel tempo stesso vennero trasportati da S. Maria del Monte due portali cinquecenteschi di marmo: l'uno, assai ricco, fu applicato all'ingresso della Piana; l'altro, più semplice, alla porta della sala di lettura.
Infine, del nuovo assetto fu posta memoria sopra quest'ultimo ingresso, all'interno, con una inscrizione dettata dal Prof. Giovanni Ulrico De Paulis, allora bibliotecario ed insegnante di greco e latino nel R. Liceo.
Il fabbricato con giardino di proprietà Pasini ed ora Bagioli, nella parte settentrionale dell'ex convento formava, colla direzione dell'edifizio scolastico, un angolo rivolto verso l'odierna via Montalti. Nel 1870 Alessandro Albertarelli, venuto in possesso di quello stabile, ne corresse la linea frontale arretrandola in prolungamento del detto edifizio, e riducendo il tutto alla forma che ancora si vede.
La lunga successione dei fatti ci ha condotti all'anno 1883, nel quale, per onorare la memoria del gran medico e filosofo Maurizio Bufalini, gli fu eretta sulla piazza delle pubbliche scuole già intitolata al suo nome, e con l'opera dello scultore Cesare Zocchi, una statua di marmo su piedestallo di granito. In quell'occasione la piazza fu sistemata a giardino, quale a un di presso si conserva anche oggi, e s'improvvisò accanto alle biblioteche una raccolta di quadri, primo nucleo della pinacoteca comunale.
II tetto della Malatestiana da qualche tempo era oggetto di giuste apprensioni. Le vecchie incavallature, spogliate di tutto il ferrame nel periodo dell'occupazione francese, si erano col lungo andare degli anni deformate e lasciavano temere il crollo del coperto, sì che il municipio di Cesena ne deliberò il restauro, eseguito nel 1899. Purtroppo la cornice, che nel secolo XV lo aveva circondato di un serto elegantissimo, era quasi tutta scomparsa in tempi lontani, restando appena sui due pioventi della facciata orientale.
L'anno successivo vennero trasportati dal palazzo comunale e adattati alla sala di lettura gli armadi in legno del vecchio archivio, di stile barocco e di proporzioni grandiose. L'inscrizione composta dal De Paulis ne rimase coperta; ma una gran lapide, stata messa sulla porta della Comunitativa nel 1806 a conclusione di quei lavori ed anche a ricordo dei fasti napoleonici, fu tolta di là e conservata fra i marmi dell'incipiente museo, allogato negli avanzi del chiostro malatestiano. Anche i medaglioni dei cesenati illustri furono rimossi e trasportati nel palazzo comunale, dove ebbero nuovo collocamento. .
Poi, nel 1901, si scopersero nel refettorio alcune tempere monocromatiche in torretta verde del secolo XV, rappresentanti la Crocifissione, S. Giovanni Battista, il Cenacolo, le Stigmate, due soggetti forse allusivi alla mutua carità dell'ordine francescano e dei fedeli, ed una scena simbolica interpretata come la risurrezione della famiglia Malatesta mediante la legittimazione dei tre fratelli Roberto, Sigismondo e Domenico. Il Prof. Orfeo Orfei le restaurò nel 1904 per incarico del Ministero di Pubblica Istruzione.
Intanto si erano compiute le pratiche per sottrarre all'autorità militare tutto il pianterreno dell'edifizio malatestiano, usato come scuderie per truppe di passaggio, e vi si erano eseguiti lavori di adattamento per il locale Patronato Scolastico, che ne occupò una parte nel 1901 e tutto il resto nell'anno successivo.
Finalmente nel 1905 furono raschiate le prospettive dalla parete di fondo della Biblioteca Malatestiana, ed ancora una volta le ceneri del fondatore, tolte dall'urna in legno del 1872, vennero chiuse in un'altra di marmo colla memoria latina del 1812 e il verbale della nuova cerimonia. Rimossa la vecchia croce, l'urna fu collocata nella nicchia preesistente, e coperta coll'antica lapide sepolcrale.
I lavori successivi appartengono ad un periodo non ancora concluso, e la nostra narrazione si ferma a questo punto. Invero, le notizie contenute in queste pagine sono riuscite sconnesse. La penuria delle fonti attendibili, gli errori e le contraddizioni dei cronisti e l'impossibilità di attingere a documenti originali perduti non potevano, del resto, consentirci di tessere una storia completa, ma solo di abbozzarne il disegno. Nondimeno quante ricerche, quante indagini e confronti ed ispezioni non bisognarono.
Ciò che su tutto emerge fra tante vicissitudini è la continuità della tradizione scolastica. In questo punto della città s'insegna fino dal milleduecento. Per secoli e secoli ai sacri canti fece eco la voce dei maestri, e fra i templi della fede stette un altro tempio non meno santo. Poi le chiese e i chiostri caddero a poco a poco sotto i colpi del martello demolitore; ma la biblioteca restò, e le scuole si perpetuarono rinnovandosi dalle prime celle claustrali fino alle costruzioni più recenti, dove si schierano le aule care alla nostra memoria.
Questo fatto importava rilevare concludendo, perché segna su quel gruppo di edifizi una nobile impronta, e gli assicura un posto nelle più elette pagine della nostra storia municipale.