Renato Serra sportivo

Conferenza tenuta in Cesena il 9 gennaio 1956 nella sala dell' Unione Sportiva “Renato Serra”

Tip. Zanotti - Cesena

Siamo qui convenuti, amici, per ricordare in comunità di memorie, di affetti e di ideali due ricorrenze: una ci riempie di tristezza e ci rinnova il rimpianto per la perdita di un Amico fraterno, di un Maestro, di un Grande che onorò la Patria in vita e in morte; l'altra allieta e vivifica questa vostra famiglia sportiva che avete dedicato alla memoria di Lui perchè agitasse perennemente la fiaccola del Suo nome e del Suo esempio.

S'è compiuto pochi mesi fa, e precisamente il 20 luglio scorso, il quarantennio dal giorno in cui una palla nemica squarciava sulle trincee del sanguinoso Podgora l'ampia e luminosa fronte di Renato Serra e il trentennio dal giorno in cui il devoto culto della Sua memoria ha fatto sorgere questa società cittadina a Lui intitolata.

È appaiando questi due anniversari, uno di morte e l'altro di vita, che, con le mie modeste forze, tenterò di darmi e di darvi l'illusione ch'Egli sia ancora vivo fra noi, affinchè più palpitante e più penetrante rimanga nell'animo specialmente dei giovani l'esempio che Egli ci ha dato di come si fa dello sport letizia di spirito, sanità di corpo, scuola di costume.

Coincise, si può dire, la giovinezza di Renato con quella del nostro sport, ed entrambi ebbero della fresca età gli ingenui impulsi, gli abbandoni sentimentali, i sogni eroici.

Dotato ad esuberanza di mezzi atletici, Egli dovette sentire, nell'impeto della crescenza, il bisogno d`ampio respiro, il gusto dello sfoggio muscolare, più ancora che la sete della velocità, che mal s'addiceva alla Sua struttura piuttosto pesante e al Suo pacato temperamento. Queste Sue doti naturali trovarono nell'abito mentale e spirituale formato da un'educazione più amorosa che severa e da una cultura classica i fermenti che gli fecero sentire e capire lo sport nella sua vera e più nobile essenza, quella di cui gode interiormente solo lo spirito che sa assimilarla per quanto esso ha di bello e di buono, di sano e di lieto, starei per dire di naturale e di sopranaturale.

A dar maggior fuoco a così pieno e spontaneo temperamento sportivo concorsero certo i fatti e le figure emergenti in quel periodo dal fiorire di manifestazioni che colpivano l'immaginazione, destavano l'entusiasmo, eccitavano la fantasia, alimentavano l'ispirazione anche di ingegni superiori, in dimestichezza con le lettere, le arti., le scienze, la politica.

Erano i tempi in cui Gabriele D'Annunzio respirava poesia in sella alla bicicletta; in cui Panzini veniva da Milano a Rimini pedalando; in cui Graziani scriveva un poemetto in latino sulla “Bycicula” e Oriani e Stecchetti cantavano in prosa e in versi la gioia di andare in bicicletta; in cui Umberto Giordano faceva dire nella “Fedora”, alla Contessa Olga, che si lamentava del tedio mortale che ogni cosa le dava e alla quale il Conte Loris domandava: “Anche la bicicletta?”.

Se amor ti allena, se amor ti guida
Gioia dei muscoli, dei nervi ebbrezza!

Vola, precipita, scivola, sdrucciola,

Cadi, rialzati, ricadi ancor...

Ma quando sola ti lascia amore

Che giova correre, se niun t'insegue?

Se niun ti regge, perchè cader?

Erano, insomma, i tempi in cui la bicicletta inebriava tutti, dal poeta all' impiegato, dallo studente al professore, dalla damina all'ufficiale, per quel senso di libertà e nobiltà spirituale, di purità morale, di dolcezza sentimentale, di afflato poetico, di gusto umano, direi quasi muscolare, respiratorio, visivo che essa sapeva soddisfare.

Questo fermento di poesia e di sano senso edonistico che la bicicletta seppe gettare nel crogiuolo della nascente civiltà moderna si unì a quello della praticità del mezzo popolare di locomozione, del fascino delle prime grandi competizioni ciclisticbe, che avevano in sè elementi di drammaticità, di fantasia, di sovranaturalità tali da dare ai propri attori una figura titanica ed eroica. Si creò, così, e si diffuse un'atmosfera d'attrattiva attorno alla bicicletta, nella quale i giovani del tempo respiravano a pieni polmoni, tanto più quelli, come Renato, che, mentre sapeva godere “la gioia fisica, la sola gioia verace - scriveva - che io conosca, quella che mi ristora e mi rifà” - aveva un intimo e istintivo gusto per quanto nello sport c'è - e allora ce n'era molto più di oggi - di bello e di buono, di estetico e di poetico, direi anche di musicale e di pittorico, di umana aspirazione all'irrobustimento e all'abbellimento del corpo e all'elevazione dello spirito.

Questa Sua disposizione naturale, questa Sua corrispondenza organica, intellettuale e spirituale con la più nobile essenza dello sport in genere, faceva Renato amante e cultore di ogni forma sportiva, dal ciclismo al nuoto, dalla ginnastica artistica al tamburello e al sollevamento pesi: e tutte sapeva

gustare con giovanile, quasi fanciullesca ebbrezza, tutti-. Lo trascinavano a vibrazioni di godimento fisico, a impressioni sentimentali, a ispirazioni di poesia.

Sentite come scriveva alla mamma nel 1901, quando studiava all'Università di Bologna:

Il papà ti avrà detto che sto bene, che ho molto appetito e che non ho bisogno di nulla; avrei voluto la maglia di ciclista, ma per dieci giorni..... Dì con Nino che alla Virtus ho visto fare delle bellissime cose, ma che però io non ho imparato niente perchè perduto in mezzo a tanti elementi disparati si lavora senza regola e senza metodo: alla sbarra non ho potuto far quasi nulla finora (e così alle

parallele) perchè avevo il dito malato; ma ora che mi è quasi guarito spero d' imparare il salto a fioretto e il passaggio (chip-sanguettola): ai manubri - dove adesso non c'è nessun atleta in allenamento - mastico i 50 con lo scatto e di forza i 42 due o tre volte, con la sinistra stocco i 36”.

E cosi descriveva la Sua giornata: “ La mia giornata press'a poco è questa: la mattina mi alzo piuttosto tardi, vado in bicicletta dalle 10 alle 12, oppure sto in casa se ho libri da leggere; a mezzogiorno faccio colazione, poi se non c'è scuola subito, vado alla Comunale e, dopo, a lezione. Uscendo dall'Università vado un po' a passeggio con qualcuno dei miei compagni, col triestino specialmente, e quindi a casa a far l'ora del pranzo. Dalle 7 e mezzo alle 9 torno all'Università e dalle 9 alle 10 alla Virtus e poi in qualche caffè a fare una partita”.

Ed ecco perchè alla mattina si alzava tardi: il gioco esercitava su di Lui il fascino dell'incertezza, del rischio, dell'emozione, che pure sono fattori vitali dello sport.

Alla madre che gli rimproverava questa Sua debolezza, scriveva: “Del resto non mi dilungherò troppo a difendermi. Che io abbia, in quest'anno forse più che in altri, attraversato un periodo non breve in cui ho giocato, ho trascurato gli studi., ho sciupato molta parte del mio tempo senza utile e senza frutto, è una cosa verissima. Sono il primo a saperlo e a riconoscerlo; ma sebbene me ne dispiaccia, non me ne preoccupo punto, perchè so bene, e tu devi esserne persuasa come me, che il carattere e il fondo di un uomo non cambia secondo le azioni ch'ei possa accidentalmente commettere, e resta sempre unico e uguale colle sue tendenze, le sue attitudini, i suoi desideri, i suoi sogni. Ora sebbene io abbia giocato, o abbia sciupato tempo e denari, non sono e non sarò mai un giuocatore, un dissipato e un ozioso: sono sempre fatto, bene o male, allo stesso modo, come m'hai conosciuto fin da bambino, innamorato e appassionato soltanto per lo studio, per le bellezze del pensiero e dell'arte, vivo quasi soltanto di quella più o meno povera vita intellettuale che pur si svolge nell'anima mia”

Di questa Sua vita faceva parte lo sport, ch'Egli sapeva nel Suo interiore umanizzare e spiritualizzare nello stesso tempo. La biciclette aveva nei suoi gusti un posto preponderante. Avete sentito quanto la usasse per svago da studente: la usava per andare da Bologna a Cesena, e viceversa, per chiederle di fargli gustare le bellezze del nostro mare e delle nostre colline, la chiamava la Sua “meravigliosa bicicletta”, ed ebbe persino una certa velleità da corridore, nella quale, però, fu superato da mio fratello, ch'era, si può dire, anche Suo, e che qualche corsetta, da Lui incoraggiato, fece sul serio. Gli scriveva nell' agosto 1904-: “Carissimo, ti rispondo in fretta, sperando che questa mia ti arrivi domattina: ecco il programma delle corse, richiedine copia più dettagliata, mandando la tua iscrizione ai Filo-cantanti (metti anche il colore della maglia). È una corsa che potrai fare molto bene, date le condizioni della strada, accomodatissime alla tua pedalata facile e leggera. Qui da Cesena vi parteciperà quel Canzio (il Brasey) che vedesti a Bologna; se tu dovessi recarti a Pavia in bicicletta potresti far viaggio insieme con lui, che avrebbe molto piacere di trovarsi con te e ti potrebbe anche aiutare in un buon tentativo di distacco dal gruppo”

Non so se in quella corsa o in altra mio fratello cadde e si ruppe una clavicola.

Renato che non era un militarista, eppure ritenne necessaria la grande guerra, volle, non ancora guarito dopo un grave incidente automobilistico, raggiungere in trincea i commilitoni romagnoli e fra essi cade da prode, scriveva a mio fratello: “Che bella cosa! Quanti fastidi, crucci e imbarazzi quella tua clavicola t'abbia risparmiato tu non lo saprai mai. Ma di questo ti devi persuadere; che in due anni che così impensatamente la fortuna t'ha ridonato della tua vita, debbono essere spesi degnamente. Quando mi si chiederà: Che hai fatto dei tuoi vent'anni? - Ho fatto il soldato, risponderò; ma tu quanti versi e prose e lieti ricordi d'amore e di cortesia dovrai presentare agli dei per saldare il tuo debito d'oggi!”

Nel 1914 mio padre, che insegnava a questo liceo sessant'anni fa, quando io frequentavo con Nino, fratello di Renato, le elementari, per distogliermi dal giornalismo sportivo, che in una casa dove regnavano la filosofia e lettere rappresentava, come professione, quasi una vergogna di famiglia, trovò da occuparmi a Cesena e nella mia breve seconda permanenza, a parte I' insoddisfazione per il nuovo lavoro, ebbi due fortune: quella di conoscere colei che avrebbe dovuto essere e, per grazia di Dio, tuttora è la compagna della mia vita, e quella di vivere sportivamente ore impareggiabili e indimenticabili con Renato.

Eravamo spesso compagni di gita ciclistica ed ogni volta era per me un godimento intimo e intenso, silenzioso e devoto, vivere la Sua gioia, cogliere in estatico raccoglimento l'espressione del Suo volto irradiante la luce interiore del Suo sguardo mite e sognante, della Sua voce sciolta sommessamente e dolcemente all'armonia dei versi intonati all'atmosfera., alla natura, alla vita che aveva attorno e che colpiva la Sua squisita sensibilità.

Non mi dimenticherò mai di un pomeriggio d'autunno in cui andammo alla pineta di Cervia, quasi in riva al mare su cui spegneva i suoi ultimi raggi il sole che scendeva dietro “Bertinoro alto ridente”. Lasciammo che le nostre biciclette s'adagiassero sul morbido tappeto di stoppie e ci stendemmo sotto lo spesso ombrello di un pino. Lui allargò due o tre volle l'ampio petto come per meglio gustare l'aria resinosa che aleggiava in quel paradiso d'incanto, poi, con quella Sua voce che pareva una carezza, socchiudendo gli occhi quasi per assottigliare e ammorbidire lo sguardo, accompagnando l'onda dei versi con largo e lento gesto cantò: “La chiesa di Polenta”.

Giunto agli ultimi versi, si rilasciò come in rapimento e finì mormorando:

Un oblio lene della faticosa

vita, un pensoso sospirar quȉete,

una soave volontà di pianto

l'anima invade.

Taccion le fiere e gli uomini e le cose,

roseo 'l tramonto ne l'azzurro sfuma,

mormoran gli alti vertici ondeggianti

AVE MARIA.

Ecco come per Renato la bicicletta era fonte di poesia e di letizia. Come lo era per mio fratello, per la comunità degli ideali e del modo di sentire la vita che li univano nella più piena amicizia e nella più sincera reciproca stima.

Sentite alcune espressioni poetiche tolte dal Suo “Canzoniere del ciclista”

SAL.UTO MATTINALE

Quando tramonta l'amorosa stella

E nel ciel bianco tremola il mattino,

Salgo al destriero in sella

E per le fresche vie prendo il cammino.

Lieve trascorro e su la fronte il vento

Placido m'urta e m'agita i capelli

E mi reca il concerto

D'acque, di fronde e di non visti augelli

E nel lago del cor tanta armonia,

Tanto riso e fulgor della natura

Desta di poesia

La fonte più che mai lucida e.pura;

E viene ai labbri una voce dal core.

Voce soave, ch'ogni nuovo aspetto

Ogni novel colore

Tutto saluta in impeto d'affetto.

E a poco a poco ne l'immenso verde,

In cui ridesta arcani amori il vento,

L'anima mia si perde

Come rapita per l'incantamento;

Così serena nuvoletta spersa

Nel ciel raggiante, a poco a poco manca

Fin che ne l'aria tersa

Più nulla appar de la sua traccia bianca

E questo canto “A una nuova bicicletta”

Io ti battezzo, o mio corsier novello,

Del nome ch'ebbe il tuo predecessor;

Tenace”, ei si nomò, tu come quello

Sii tenace di nome e più di cor.

A' suoi begli anni per lunghi cammini

Come in placido volo ei mi portò;

Dal gran coro del'Alpi e gli Apennini,

Dagli umbri vichi al largo pian del Po.

E bianchi soli, e riso di tramonti,

E notti effuse del candor lunare,

Ardue salite per solinghi monti,

Rapide corse lungo il verde mare.

Tutto provammo, e il gelo e la calura,

L'aura di maggio e l' ira d'aquilon,

La fanghiglia, la polvere, l'arsura,

Le lunghe pioggie e il minacciar del tuon.

E vedemmo città rumoreggianti

Ove ai lontani glorȉosi dì

La nuova arte latina i folgoranti

Marmi e le tele del suo riso empì;

Borghi che specchian ne l'acque correnti

Gli alti camini fumanti al lavor,

Dove le mura dei gran casamenti

Suonan di canti e di ferreo stridor;

Tristi e nere casupole addossate

Lungo la strada in atto di cader,

Con l'uscio bruno e le finestre ornate

Di gerani e viole del pensier.

E ognor de' versi miei agil e schietti

La bicicletta era il cavallo alato.

E Dio solo lo sa quanti sonetti

Ai pruni delle siepi abbiam lasciato!

Altro sport che a Renato piaceva moltissimo era il tamburello. Spesso salivamo alla Rocca con altri amici per cimentarsi in amichevoli sfide. Atletico di struttura, Egli sfogava nel sonante colpo la sua forza esuberante, non sempre ben regolata dal senso del tempo, di cui difettava. S'imbronciava e s'amareggiava quando la palla gli schizzava via in fallo; ma quando gli riusciva di centrarla, la seguiva estatico con l'occhio e apriva le labbra come volesse baciarla per la soddisfazione che gli dava e che Egli esprimeva con un lungo “ohhh!” o un “guarda, guarda Peppino, che bello!”.

Del resto quanto intensamente Egli praticasse lo sport e quanto esso lo allietasse ed Egli sapesse coglierne l' intima, umana essenza, potete capirlo da queste due lettere che scriveva nel 1908 e '9 al Suo caro amico Plinio Carli:

È un mese forse che non mi sono seduto a questo tavolo, e la penna si gira assai goffmente fra le dita abbronzate e più usate ormai al manubrio della bicicletta e alle spume salse che le fiorivano nelle lunghe nuotate”.

E poi:

Quando domani verrà, allora penseremo al domani, dice un proverbio ch'io amo. Ma oggi penso bene che se il mare non è più come d'agosto, turchino e placido, sì ch'io possa godermi le lunghe ore seduto sulla trave più bassa dell'ultima punta del molo di Cesenatico, a sentir l' acqua che mi lambiva con un brivido di frescura i piedi abbandonati a fior dell'onda, o a riguardare per la silenziosa mattina il gran lago chiarissimo colore del cielo che al sole si ravvivava splendidamente e non era già più che una danza di miriadi di faville, uno scintillio d'argento nel turchino dove io nuotando m'inebriavo di luce e di delizia pura – se le belle strade, bianche fra le lunghe colonnate di pini e di pioppi vibranti con fresco brusio al maestrale non fuggono più sotto le mie gomme sonore e non più m'invitano a perdermi nella solitudine del mezzogiorno, sudato, anelante, felice, tutto pieno nell'intime fibre di venti e di sole – se l'estate è finita e non avrò più la gioia dell'ombra in cui mi bagnavo dopo le corse accaldate come in una fontana di frescura, la gioia delle sieste sull'erba folta, calda, viva, col gioco dell'ombra leggera degli ulivi sugli occhi, e lo splendore dell'inalterabile azzurro in tutto l'esser mio naufragava - pure nel gioco del pallone solitario in cima al colle della Rocca le percosse secche dei tamburelli si rispondono fino a tarda sera., e la palla vola già pronta nell'aria di settembre ch'è più fina; la gioia fisica, la sola gioia verace ch'io conosca, quella che mi ristora e mi rifà, ancor non è finita del tutto. Virgilio e Platone mi sono aperti davanti: quando

domani verrà, allora penseremo a domani”.

Così, amici, Renato Serra sentiva e coltivava, in purità di spirito lo sport e, oltre che conciliarlo con la severità dei Suoi studi, con la nobile produzione del Suo ingegno, sapeva trarne svago e ristoro corporale, ispirazione ideale per il Suo lavoro di uomo di squisita sensibilità artistica e letteraria,

di umanistico gusto e temperamento, di alta cultura. Esempio stupendo di come va concepito, direi quasi assimilato intimamente lo sport nella sua vera essenza e inserito nella vita quotidiana, di cui deve essere fucina di energie fisiche, scuola d'alti ideali, sorgente di serenità e di bontà, affermazione della propria personalità e superiorità fisica e spirituale.

Chi, come me e non pochi di voi, nel lungo corso degli anni ha dovuto con amarezza assistere prima al lento e poi precipitoso degradare sul piano speculativo della concezione e della pratica sportiva, sente il nostalgico richiamo di questo esempio e, nel rievocarlo, vorrebbe ch'esso fosse per i giovani invito al ritorno alle sane e naturali origini dello sport, alla salutare sua pratica nobilitata dai più alti ideali umani, civili e nazionali.

Questo invito è implicito nella bandiera della vostra Società, innalzata e sventolante da 30 anni nel nome di Renato Serra.

Sono certo ch'Egli lo avrebbe gradito, lo avrebbe frequentato questo centro di vita cittadina, che avrebbe sostenuto questo fulcro di movimento sportivo.

Renato non ha saputo, non ha voluto vivere lontano dalla Sua città, anche se non vi trovava da appagare tutte le Sue aspirazioni.

Scriveva a Plinio Carli, da Cesena, nel 1909:

Io sono solo e abbandonato, in un certo senso: lontano dalle biblioteche, dai musei, dalle cose belle che io amo, e da quelli che le amano come me. Ma sono in casa mia dove anche il dolore è più umano e ha anche qualche dolcezza per il cuore, come di famigliare più antico e più discreto. Ma sono a Cesena, fra le cose mie, fra la gente che ho sempre praticata; e dalla mia finestra usata l'inverno è meno squallido a considerare e nei rametti dei pioppi che frusciano brulli e nudi innanzi alla mia finestra la primavera, a questo sole che scioglie le ultime croste di neve e fa luccicare la scorza verdognola, si annunzia più lieta”.

Questo attaccamento alla città natale, della Sua fanciullezza. dei Suoi studi, alle Sue strade per le quali si sentiva felice passeggiando a lungo la sera, la notte conversando con gli amici intimi, anche d'inverno, avvolto nella capparella scura; questa Sua predilezione per le usanze, per la vita

provinciale lo trattenne sempre dallo spiccare il volo verso la grande città, dove certo il Suo ingegno, la Sua cultura avrebbero trovato miglior modo di manifestarsi e di affermarsi e di imporsi e di dargli ben altre soddisfazioni professionali.

La Società che 30 anni fa è stata fondata per tener vivo il culto della Sua memoria risponde appieno alle Sue preferenze, al Suo amore per le cose belle e, quindi, anche per lo sport. Appartenervi vuol dire avere l'onore di partecipare a questo culto per il grande Cesenate. Per gli anziani che vi fanno parte, che ebbero la -fortuna di vivere nell'alone di così alto spirito e intelletto e cui toccò il dolore di perderlo, la figura di Renato Serra sportivo rimarrà come espressione di squisita sensibilità, di altissimi ideali animati e pervasi da caldo umanesimo di stampo romagnolo. Per i giovani atleti che militano sotto i colori bianco - neri il nome di Renato Serra deve essere una bandiera di sana passione, di sincero amore per lo sport, di fiero orgoglio di società, un invito a quella gioia fisica ch'Egli seppe così puramente perseguire e godere facendone alimento, sorgente, impulso all'espressione del Suo nobilissimo spirito di scrittore.

Io, che ho voluto fare dello sport ragione di vita e credo di essere rimasto, pur sotto le pressioni delle esigenze professionali, fedele ai suoi ideali, consapevole delle sue alte funzioni umane e sociali, certo di quanta forza di convinzione e di quanta luce di ispirazione e di guida emanino dall'esempio dei Grandi, non saprei per lo sport indicarvene altro più affascinante e trascinatore di quello che ci ha dato Renato Serra.

Se non è illusione la mia di essere riuscito, con questa rapida rievocazione delle dolci, profonde impressioni che Egli ha lasciato nella mia memoria e nel mio cuore, a far rivivere l'esemplare, perfetta, grande figura di Lui sportivo, voglio, amici, e mi rivolgo specialmente a quelli di voi che siete invidiabili e felici nel fiorire della giovinezza, dirvi che avrete molto giovato, fisicamente e spiritualmente, a voi e al Paese, se nel concepire e nel praticare lo sport terrete presente come lo capì, lo sentì e lo praticò, sinceramente e nobilmente, il nostro caro, indimenticabile Renato.