Perchè ho fatto il giornalista sportivo

Non so se il giorno in cui ho deciso di darmi al giornalismo sportivo ho imboccato la strada giusta o se, riponendo nel cassetto la laurea in giurisprudenza nonostante le contrarietà di un padre professore di filosofia e di un fratello maggiore professore di lettere, ho sbagliato a infilare la strada di cui oggi son giunto quasi al termine.

Mi sono fatto spesso questa domanda e, non sapendo darmi una risposta, ho cercato di rendermi conto del perchè, in tempi in cui lo sport era la bestia nera di tanti genitori ed educatori e scriverne veniva considerato passatempo da ragazzacci o professione svilita e irreditizia, m'è venuto in mente e ho avuto il coraggio di avviarmi al giornalismo sportivo.

E' vero che la decisione la presi poco dopo la laurea e una breve pratica di studio legale, ma era, direi, già in pectore fin da quando la bicicletta, da universitario, era la mia innamorata, la compagna nelle escursioni di “Audax”, delle gite ai laghi e ai monti, delle corsette fuori legge; e, prima ancora, maturava nelle partite di calcio in piazza d'armi, nelle nuotate in Po, sui campi di tennis e ovunque potevo sfogare quella smania di moto, di gioia fisica, così benefica per lo spirito, che mi bolliva nel sangue negli anni liceali. Ma più indietro ancora sentivo che s'affondavano le radici di quel gusto, di quella passione che poi determinò la scelta della mia professione.

Dove? Quando? Ecco, ho trovato. In un ampio cortile asfaltato, diviso da due filari di platani e cinto di un portico quasi rustico, in cui si scendeva due volte al giorno dalle aule scolastiche e, sotto gli occhi vigili e amorosi del maestro, per una mezz'ora segnata dai tocchi garruli di una campanella, noi ginnasiali - parlo, nientemeno. che degli ultimi anni del secolo scorso – ci davamo ad accanite sfide di corsa e a giuochi di ogni genere, in cui avevo, lo ricordo come fosse oggi, per più temibile avversario un brunissimo e velocissimo atleta in miniatura. Ebbene, quelle aule erano del Collegio San Giuseppe di Torino, che fu la vera culla della mia educazione e istruzione; quel Maestro era Fratel Agapito, tanto buono quanto bravo (a oltre cent'anni, Professore!); quel ragazzo così forte in italiano quanto in corsa, era l'amico carissimo Nino Salvaneschi, che poi ha dirottato in tempo dallo sport alla letteratura.

E' proprio lì, in quella amabile e indimenticabile casa e famiglia di studio, di religione, di profonda e sana formazione spirituale, culturale e corporale, che ho cominciato ad amare lo sport e a capire che a farsene banditore era opera molto più pregevole, se compiuta in sincerità e onestà d'intenti, di quanto allora non fosse ritenuto dai più. Se banditore mi sono poi fatto, salendo la lunga scala della professione giornalistica sportiva - mi si consenta l'immodestia - sino al gradino più alto, la ragione e il merito risalgono a quegli educatori veramente maestri, quali i Fratelli della dottrina cristiana - che qui ricordo con gratissimo animo - che, primi in Italia, hanno saputo fondere nel loro sistema didattico la sana umanità dello sport con la santità della religione, la nobiltà del sapere e la signorilità dell'educazione. È stata la loro scuola a condurmi a questa fusione spirituale, che mi è stata guida di una vita tutta spesa per gli ideali umani, civili e nazionali che lo sport sa e deve suggerire e promuovere.

L'avv. Giuseppe Ambrosini, Direttore della “Gazzetta dello Sport”, oltre a esprimerci in modo brillante il suo “dopo la laurea” accompagna l'articolo con queste parole rivolte al Fr. Giulio: “Le sono molto grato perchè esso mi offre l'occasione per ricordare giorni felici ed esprimere la profonda riconoscenza per quanto so di aver ricevuto nell'indimenticabile scuola e, lo spero, per riallacciarmi, almeno spiritualmente, ai vecchi compagni”.

La gratitudine è nostra, caro Avvocato, ed è la gratitudine di tutti coloro che devono tanto all'educazione sportiva.