La fiaba del Giro. E’ fuggito Ambrosini

Pochi mesi dopo essere andato in pensione a 75 anni a godersi un po' di riposo, nella sua villa sui colli emiliani, il più celebre giornalista sportivo d'Italia ha sentito a primavera un rimpianto: ha ripreso il berretto sportivo ed è corso ancora con i suoi ciclisti.

Un grande, commovente personaggio del Giro ciclistico d'Italia che rientra e si conclude oggi a Milano è Giuseppe Ambrosini, il più famoso dei giornalisti sportivi. Ha settantacinque anni. A metà del 1961 dichiarò: “E' ormai tempo ch'io mi ritiri nella mia villa in Romagna. Sono sulla breccia dal 1912. Ho fatto la mia parte. Non è più questa per me stagione di corse, di strapazzi, di lavoro. Vado in pensione”.

Lasciò la direzione della “Gazzetta dello Sport”. “Al massimo – aggiunse all'ultimo momento nel partire da Milano per stabilirsi definitivamente a Sette Crociari, non lontano da Cesena – scriverò ancora qualche articolo, di tanto in tanto, ma non seguirò più le corse. Voglio godermi in pace la mia vecchiaia”.

Dolci sono le colline di Cesena, la villa è sulla strada che conduce a Bertinoro “alta e ridente” come la chiamò il poeta Giosuè Carducci, le vigne producono il prelibato vino Albana, di lassù si domina il panorama della verde terra romagnola fino all'azzurro dell'Adriatico, ecco Rimini, e Cervia, e là in fondo Marina di Ravenna nel tremolare dell'orizzonte.

Quale rifugio più incantevole, quale porto più sereno si potrebbe sognare per la propria vecchiaia? Con intelligente previdenza Ambrosini pensò molti anni fa al momento in cui sarebbe arrivata l'età della pensione. Questa villa è come il salvadanaio di tutta una vita di lavoro. Egli ha faticato sodo per poter acquistare il grazioso edificio di campagna ed abbellirlo sempre più con amorevole cura. Quante migliaia di bellissimi articoli sulle gesta del ciclismo ha dovuto scrivere per comprare e restaurare la villa, costruire il nuovo impianto d'irrigazione e curare il piccolo e prodigioso frutteto? Ma, ora, che delizioso riposo in questo paradiso. Che divertimento fare l'olio e il vino in casa; che lieta, beata serenità con la moglie, la signora Nella, affettuosa compagna nella lunga, operosa vita, e che lo ha atteso con pazienza, con trepidante ansia, tutte le volte che lui partiva per gli innumerevoli giri d'Italia e di Francia.

Lo scorso inverno Ambrosini, immerso nella pace del suo ritiro, comprò un piccolo armonium e si divertì ad imparare a suonarlo. Il suo pezzo forte era l'Ave Maria di Schubert. Decise di eseguirlo nella chiesa parrocchiale, durante la Messa della domenica. Chi pensava più alle biciclette da corsa, ai “giganti della strada”, alle epiche battaglie sulle salite delle Dolomiti?

Ma tornò maggio. Le albicocche cominciavano a maturare nel piccolo frutteto. Ambrosini le spiava compiaciuto della propria opera. Eppure nel cuore sentiva crescergli un'ombra di melanconia, un'irrequietudine, un rimpianto. I giornali e la radio, giorno su giorno, gli portavano notizie sempre più ampie dell'imminente Giro d'Italia, del suo Giro, del suo ciclismo. Un'onda di ricordi lo sommerse. Dovette dirsi: e io che ci sto a fare? Ambrosini tornò a indossare la giacca di camoscio, il berretto sportivo, gli occhiali contro la polvere. Al diavolo l'armonium! Fuggì a Milano, si unì alla carovana in partenza. Tornò a scrivere – come semplice cronista – gli stupendi racconti dei corridori che scalano montagne immani, divorano quattromila chilometri in una ventina di giorni, sfrecciano nelle volate, accendono una fiammata d'entusiasmo al loro passaggio. Ambrosini tornò ad essere prodigiosamente giovane.

Questo è il miracolo del ciclismo, la sua eterna giovinezza. Si dice: “Ormai il Giro d'Italia non interessa più. Sono cose d'altri tempi, ormai siamo nell'epoca degli sputnik e degli astronauti che fanno il giro del mondo in un'ora e mezzo. Chi volete che si appassioni più alle vicende di uomini che vanno in bicicletta?”.

Ma è bastata una bufera sulle Dolomiti, sono stati sufficienti quei fiocchi di neve, quelle sferzate sulle gambe nude dei corridori, sui volti contratti nello sforzo della salita e nella sofferenza delle intemperie, perchè il ciclismo afferrasse di nuovo il cuore delle folle, il cuore della povera, semplice gente, perchè questo fu e rimane lo sport degli umili, dei contadini, degli operai. I piccoli corridori del nostro tempo tornavano ad essere i “giganti della strada”, come quando c'erano i Girardengo, i Bottecchia, i Binda, i Guerra, i Bartali, i Coppi.

La magica fiaba si è rinnovata, anche con personaggi minori, anche nell'epoca delle autostrade e degli aerei a reazione.

Non può estinguersi uno sport che fa fuggire dalla quieta villa di Cesena il vecchio giornalista che alla domenica suona per diletto l'armonium nella sua parrocchia di campagna. Non può invecchiare uno sport per cui l'ex-direttore di giornale accetta di tornare umile cronista, semplice meraviglioso gregario, nella équipe che fu tutta alle sue dipendenze, pur di vivere ancora l'atmosfera inebriante della corsa.

Passano i corridori tra due ali di folla, tornano polverosi, affaticati al traguardo finale di Milano dopo aver pedalato per quattromila chilometri. Sono i superstiti di una cavalcata sempre stupenda, di una fiaba che resta magica anche nell'epoca degli sputnik. Al loro passaggio si smorzano i sorrisi d'ironia, tutti dimenticano i ragionamenti sulla decadenza dello sport del pedale. Un'ondata di commozione si impadronisce della gente. Scoppia l'applauso. Molti gridano: “Bravi! Evviva!”. Eterna giovinezza del ciclismo!

Arrivederci al 1963, caro, sempre caro, Giro d'Italia! Arrivederci al prossimo anno, intramontabile Giuseppe Ambrosini!

Dino Zannoni