Il ciclismo ha perso un padre

La scomparsa di un personaggio che ha segnato profondamente un'epoca

E' morto a 94 anni il giornalista Giuseppe Ambrosini

  • il ciclismo è in lutto. E' scomparso Giuseppe Ambrosini, un maestro del giornalismo che ha dominato la scena negli anni d'oro di Coppi e Bartali.
  • Dal 1950 al 1961 Ambrosini aveva diretto la Gazzetta dello Sport, seguendo da vicino il ciclismo anche come popolarissimo direttore di corsa del Giro d'Italia e delle altre classiche organizzate dal nostro giornale.
  • Profondo studioso del ciclismo, che considerava una scienza esatta, fu autore di numerosi libri. Una sua opera, “Prendi la bicicletta e vai”, è tuttora considerata una specie di Vangelo del ciclismo.

Uno scrittore con la tempra del condottiero

La notizia della morte di Giuseppe Ambrosini ci ha colti di sorpresa ieri mattina al nostro arrivo al giornale. Essa ci ha provocato, come succede ogni volta che muore una persona cara, un attimo di smarrimento, di silenzio breve e profondo dentro il quale, quasi per un miracolo, riesci a concentrare chissà come, i ricordi di una vita. Non v'è meditazione più energica di quella che procura la morte per questo suo potere che è potere di amore e di sintesi.

Di quest'uomo straordinario, che pareva indistruttibile e il cui addio ci è arrivato di lontano come un rintocco di campana, non ignoravamo l'età, quasi biblica ormai, anche se abbiamo dovuto fare un picclo sforzo di memoria per precisarla nella sua cifra esatta, pressochè storica. E' forse questa una ingiustizia della quale serberemo il rimorso, quasi avessimo scordato l'età di nostro padre.

Ambrosini aveva novantaquattr'anni. Camminava dunque verso il secolo come il patriarca di una generazione della quale il mondo ha perduto la traccia e la matrice, quella matrice ferrigna – direbbe il poeta - “nella quale si forgia il meglio della gente di Romagna”.

Ma l'espressione “camminava”, ci risulta impropria perchè Ambrosini, dopo di avere macinato in vita sua migliaia e migliaia di chilometri, da qualche anno, per una ingiustizia del destino, non camminava più. Due cose che parevano esemplari della sua virtù fisica, non gli funzionavano più: la vista e le gambe. Il resto, a cominciare dall'intelletto, gli era rimasto miracolosamente intatto per una specie di eredità preziosa che era stata avvalorata dal merito, dalla coscienza coltivata di essere sempre e il più a lungo possibile, un atleta fra gli atleti.

Ambrosini ce ne fece memoria, quasi per impartirci un'ultima lezione di saggezza e di vita, qualche anno fa, allorchè, deviando dal percorso di un Giro d'Italia che passava dalle parti di Cesena, ci arrampicammo sulla collina di Settecrociari per raggiungere la sua villa di campagna, l'eremo silenzioso nel quale da tempo viveva.

In quel luogo di pace, tra spiritualissimi scorci (il colle di Bertinoro, la Chiesa carducciana di Polenta) il grande vecchio, i cui occhi chiari si stavano chiudendo come feritoie, ci apparve diverso da come l'avevamo conosciuto, in una misteriosa solennità, rivolto a guardare senza nostalgie la lunga vita che gli era passata accanto. Quasi non domandò notizie del Giro, della corsa che stava imperversando lungo le strade della pianura, appena sotto di lui. E allora capimmo, più che mai, la sua raffinatezza d'animo, la ricchezza di spirito che prosperava dentro di lui. Un atteggiamento diverso, una piccola curiosità banale ce lo avrebbero sciupato, ce lo avrebbero reso eguale agli altri.

Ambrosini, l'”avvocato”, il direttore di corsa, che di ciclismo era vissuto, di ciclismo non parlava più. Ma ciò non significava che non lo amasse più. Faceva soltanto professione di silenzio e ciò rientrava perfettamente nel suo stile ch'era quello di un uomo asciutto e severo, con poche indulgenze. Profondamente rispettato ovunque si fosse mosso, dentro e fuori il giornalismo, egli non avrebbe mai tollerato un solo attimo di compassione. E così è morto; di colpo, senza agonia.

Ma ora, ripensandolo da vivo, veniamo sopraffatti dai ricordi e dovremmo parlare di lui a cuore aperto, disciplinando i ricordi più che i sentimenti, come si può parlare – e questo è il caso – di un argomento senza fine.

Non può essere la sua lunghissima vita il filo del nostro racconto. Ci porterebbe troppo lontano. Possiamo soltanto riassumere i tre aspetti rappresentativi del suo grande talento e della sua affascinante personalità umana.

E' stato un grande giornalista, un grande organizzatore, un grande amico. Ma si capisce rileggendolo, riguardandolo in piedi sull'ammiraglia del Giro d'Italia (“Pare un romano antico” disse di lui Orio Vergani), si capisce che l'uomo la vinceva su tutti: l'uomo romagnolo in tutte lettere, in ogni nervo, discendente legittimo per passione e sentimento, vorremmo dire per ruggito, di Alfredo Oriani. Ad Oriani, Giuseppe Ambrosini aveva in certo senso rubato la bicicletta: di quel vecchio catenaccio, ancora appoggiato ad un cantone del Cardello, egli aveva fatto un avveniristico gioiello.

Egli, dopo di avere praticato lo sport in diverse discipline e a diversi livelli, è stato il primo scrittore di sport che sia riuscito a tradurne l'epos trasformandolo in scienza. Con Ambrosini la virtù umana dell'atleta, del ciclista in particolare, ha dimesso gli aggettivi per vestire i sostantivi; è diventato il tessuto di un qualcosa di serio e di vero. Mi limito ad un riferimento personale: il primo regalo che ho avuto da lui, arrivando in “Gazzetta”, più di vent'anni fa, furon due libri di fisiologia. “Leggili – mi disse – studiali. Il resto è poesia.”.

Del ciclismo, in effetti, fu il primo ad esaltare, in una maniera razionale e scientifica non a tutti comprensibile (chi si ricorda della ricerca del segmento antropometrico nei campioni che di volta in volta “misurava”?) l'elemento tecnico e la sostanza umana. Sotto questo aspetto considerava il ciclismo uno sport ambivalente bisognoso di studio e di approfondita conoscenza. Bisognava sempre fondere la macchina con l'uomo e la fusione non poteva riuscire mai facile agli apprendisti, agli empirici. Il suo libro “Prendi la bicicletta e vai”, tradotto in non so quante lingue, rappresenta ancor oggi quanto di meglio la letteratura sportiva, non solamente ciclistica, abbia prodotto. Chi vuol avviarsi al ciclismo lo deve leggere come la miglior guida che esista. Chi ha inteso far di meglio si è limitato a copiarla.

Il suo mestiere di giornalista, d'altronde, aveva una fonte, nasceva e si sviluppava nel solco tracciato da suo fratello Luigi, letterato, soave scrittore, prodotto di una tradizione che aveva avuto in Renato Serra l'ultimo aedo e potremmo dire, l'ultimo eroe. La storia letteraria del primo novecento non abusava delle immagini.

Giuseppe Ambrosini, uscito da una “nidiata di gentiluomini” (era una figura naturalmente elegante, piena di fascino), aveva scelto lo sport come palestra del proprio esercizio: era stato atleta, radiocronista pioniere, maestro vero di un giornalismo che sapeva esercitare, già inoltrato negli anni, con una passione edificante. In questa funzione fu anche inventore ed è bene si sappia che il sistema delle informazioni radiofoniche in corsa, oggi adottato da tutti, fu opera sua. Lo sperimentò nel dopoguerra, intorno agli anni '50, al Giro d'Italia, attrezzando una moto con sidecar della quale Rino Negri fu una specie di acrobatica antenna. Furono i tempi d'una cronaca ch'è diventata leggenda. Bartali e Coppi vennero annunciati in fuga, a chi non li vedeva, attraverso bollettini rapidi dei quali, a chiuder gli occhi, perdura ancora l'eco.

L'ammiraglia del Giro dalla quale Ambrosini parlava era un'Alfona rossa dall'aspetto monumentale, che pareva fatta apposta per esaltare la sua figura di condottiero al quale sarebbe stato impossibile non ubbidire. Ricordo ancora la sua inventiva tagliente, rivolta qualche volta ai campioni quando si perdevano nei dispetti o poltrivano al sole offendendo la folla. “Delinquenti!”. Raramente l'insulto, che usciva dal cuore, cadeva nel vuoto. Un effetto lo produceva sempre.

Era un direttore di gara energico, passionale, sanguigno. Incurante del tempo, era capace di balzare dall'automobile sulla moto, tutte le volte che le circostanze, fossero pure le più scomode, gliel'imponessero, pur di restare accanto al cuore della corsa.

Sul Gavia, nel Giro del '60, colpì con un fendente, vibrato con la bandiera, un montanaro che aveva spinto Massignan. Lo sprovveduto spintaiolo, inviperito dal dolore (il colpo era stato secco e preciso, ad un orecchio) e nella convinzione d'essere stato punito per un'opera buona, reagì con una sassata ch'era partita precisa come una schioppettata. Ambrosini, alto sull'ammiraglia, l'evitò di giustezza, con l'abilità d'uno schermidore. Aveva già più di settant'anni; era l'ultimo a coricarsi la sera, saltava il pasto di mezzogiorno per nutrirsi a cena con insalata di cipolle.

In sala stampa, dopo la corsa, era tra gli ultimi a cominciare e tra i primi a concludere. I suoi articoli critici, estremamente rigorosi, ricchi di cifre, privi di lacrime, eran lo specchio della sua immagine. Sarebbe stato sciocco, oltre che vano, cercare di imitarli. Un po' per celia, ma molto sul serio, un giornale umoristico del quale proprio lui era stato tra i fondatori lo aveva definito “l'Aristotele della bicicletta”.

Ora ce lo vediamo, questo Aristotele bonario, nel suo paradiso, con la mano pacata, rivolta col palmo sopra le nuvole e verso la terra ad indicarci la via di un mestiere ch'Egli ha onorato fra noi per lunghissimo tempo e meglio di tutti. Come pochi e vorrei dire come nessuno, Giuseppe Ambrosini ha diritto al nostro amore, al nostro rimpianto, alla nostra accorata nostalgia.

Bruno Raschi


Gianni Brera lo ricorda così

Con l'incarico di direttore responsabile, Gianni Brera ha condiviso la direzione della “Gazzetta dello Sport” insieme a Giuseppe Ambrosini (che ne era il direttore) dal gennaio del 1950 al novembre del 1954. Ecco come Brera ricorda Ambrosini.

Aveva un merito altamente poetico: quello di considerare il ciclismo una scienza esatta. Non lo era per niente, ma gli studi del Pepp Ambrosini sulla morfologia degli atleti erano stati seri. E proprio quelli, io ne sono certo, gli sono valsi una felice sopravvivenza nell'ambito inquieto del giornalismo sportivo. Gli altri nostri vecchi colleghi erano dei retori tronfi o degli squallidi amanuensi. Lui è passato indenne tra due guerre mondiali. Si è fatto il gruzzolo, la casa in campagna, una bella biblioteca. Ha continuato a lavorare finchè gli ha retto il braccio; poi ha letto soltanto ed ha guardato a tutti noi, allievi e no, con la bonaria indulgenza di chi sa capire, non solo, ma anche compatire. Io lo ricordo, senza smancerie, più ammirato che commosso: e mi pare proprio che di essere tuttora ricordato con ammirazione lui possa dirsi onestamente contento. Addio, vecchio Pepp!


Un avvocato innamorato dello sport

Ambrosini aveva dedicato la sua vita allo studio del ciclismo ed era considerato un maestro. I funerali si svolgeranno oggi alle 17 a Massa di Settecrociari (nei pressi di Cesena) dove l'illustre giornalista aveva sempre abitato.

Cesena. Ieri mattina alle ore 9 precise è serenamente spirato nella sua villa di Massa di Settecrociari, nell'immediato entroterra cesenate, l'avvocato Giuseppe Ambrosini, che un paio di mesi fa aveva subito una leggera trombosi, era nato il 13 novembre 1886, ed ha trascorso la sua vita nella villa di Massa dei Settecrociari, alla periferia di Cesena, nella zona collinare che porta a Bertinoro. L'avvocato Ambrosini aveva creato all'interno del parco della sua villa un eremo ricavato da una casetta in legno prefabbricata, appollaiata su un cucuzzolo dal quale si può godere il panorama suggestivo del verde della campagna che si perde sino all'azzurro dell'Adriatico.

Nel suo eremo Giuseppe Ambrosini, specialmente dopo la morte della moglie avvenuta alcuni anni fa, si isolava per scrivere i ricordi di una vita dedicata al giornalismo ed allo sport. Riceveva solo amici intimi, coi quali amava parlare della sua terra, dei suoi frutteti e del miracolo che la natura ogni anno ripete a primavera.

Nonostante i quasi 94 anni (li avrebbe compiuti il 13 novembre prossimo) l'avvocato Ambrosini si teneva costantemente informato sugli avvenimenti sportivi, leggendo tutti i quotidiani e mantenendo contatti telefonici con le varie fonti di informazione. In Romagna era un personaggio notissimo, promotore, consigliere, suggeritore di tutte le iniziative sportive.

I funerali di Giuseppe Ambrosini avranno luogo oggi pomeriggio 25 giugno, alle ore 17, con partenza dalla vitta di Massa dei Settecrociari. La salma verrà traslata nella chiesetta di Massa, dove verrà celebrata la santa Messa.

Per espressa volontà dell'estinto, i resti mortali di Giuseppe Ambrosini verranno sepolti nel piccolo cimitero adiacente alla chiesa di Massa di Settecrociari, a soli cento metri dalla villa vicino ai suoi vigneti che producono un Albana e un Sangiovese “veramente speciali”, come amava dire Giuseppe Ambrosini, perchè fatti con uve maturate al sole di Romagna e profumate dall'Adriatico.

Bruno Rossi


Fece ritirare Bartali da un Tour

Il vecchio campione toscano ricorda quando nel 1937 l'intervento di Ambrosini lo convinse ad abbandonare la grande corsa a tappe francese

E' stato un grande giornalista, l'ho sempre stimato per la sua competenza e la sua dedizione, ma siamo stati sempre in contrasto fin dal nostro primo incontro avvenuto a Torino nel 1936 in occasione del campionato piemontese per le tre categorie. Non voleva farmi partire in quanto ero l'unico extra-regionale. Poi, nel vedermi piangere, disse agli organizzatori: “Lasciatelo partire, tanto dove volete che vada...”. Staccai tutti e vinsi la corsa. Anche il Tour de France del 1937 lo persi per il suo intervento e non stiamo qui a raccontare i dettagli. Nel 1938, invece, ci avvicinammo: al mio matrimonio mi regalò il film del Tour de France che avevo appena vinto e affermò di essere lieto di applaudire un campione. Più tardi divenne tuttavia un coppiano, forse perchè io ero un corridore che spesso si rifiutava di rimanere sotto le sue ali. Ambrosini era un grande protettore del ciclismo e dei suoi protagonisti, che amava quasi in modo viscerale”.

 

Magni: “sapeva trascinarci”

La mia carriera sportiva si è svolta interamente nel periodo in cui l'avvocato Ambrosini dominava la scena del ciclismo. Era un autentico maestro di sport e di vita, un personaggio immenso, dotato di grande fascino. Austero nella figura, burbero nell'aspetto, aveva un grande cuore, una disponibilità tipica della razza romagnola della quale era uno dei massimi esponenti. Era un trascinatore e, soprattutto, uno studioso dei problemi del ciclismo. E' stato il primo ad occuparsi dell'alimentazione e della dietetica dei ciclisti, che sottoponeva a scrupolosi test psico-fisici. Ancora oggi il suo “Prendi la bicicletta e vai” è considerato una specie di vangelo per giovani e meno giovani che intendono dedicarsi allo sport del pedale. Con l'avvocato Ambrosini, il ciclismo perde una personalità che non sarà facile dimenticare”.

 

Torriani: “Impostò la tecnica moderna”

Vincenzo Torriani, il direttore del Giro d'Italia, ha così commentato la notizia della morte di Ambrosini:

Come Cougnet è stato un maestro nel dare un indirizzo al settore organizzativo e spettacolare delle manifestazioni sportive, così Ambrosini è stato un maestro nell'indirizzo moderno delle corse, sul piano tecnico e regolamentare. Questo a prescindere dal suo valore quale giornalista e commentatore.

Entrò nello sport giocando portiere

Giuseppe Ambrosini era nato a Bologna il 13 novembre 1886. Si era laureato in Giurisprudenza a Torino il 25 novembre 1909. Partecipò alla guerra 1915-18 (venne congedato maggiore di fanteria). Ebbe un encomio all'ordine del reggimento come comandante di compagnia che si era distinto sul campo. Croce al merito di guerra. Cavaliere della corona d'Italia. Commendatore al merito della repubblica. Stella al merito sportivo.

Fu uno dei fondatori de “Il Guerin sportivo” (Torino, 1911). Redattore capo de “Il Paese sportivo” (Torino, 1925-1930). Direttore della rivista “L'Accessorio” (Torino, 1925-1928). Capo dei servizi sportivi de “La Stampa” alla quale apparteneva anche Vittorio Pozzo (1932-1950). Direttore de “La Gazzetta dello Sport” (1950-1961).

Svolse le seguenti attività sportive: nel 1903 fu portiere della squadra di calcio che vinse il titolo delle scuole medie torinesi (1903), giunse secondo nella gara di nuoto di 400 metri stile libero dei campionati studenteschi (1907), fu campione d'Italia dei giornalisti di ciclismo (1911-1914), ottenne il brevetto Audax di ciclismo (1906), partecipò a gare di scherma, tamburello e tennis.

Presidente della commissione arbitri e tecnica della Lega Sud. Consultore, presidente della commissione tecnica e delegato ai numerosi congressi internazionali di ciclismo. Commissario ai campionati del mondo di ciclismo e al Tour. Revisore delle carte federali dell'Uvi. Direttore di corsi per istruttore dell'Uvi (frequentati tra gli altri da Guido Costa e Giovanni Proietti). Direttore di corsa del Giro e di tutte le corse de “La Gazzetta dello Sport” dal 1949 al 1960. Autore di monografie e libri di ciclismo tradottiin diverse lingue. Per il suo libro “Prendi la biciletta e vai” ebbe il premio Coni. Il libro è stato tradotto anche in Giappone e nell'Unione Sovietica. Scrisse anche “Sport, gioia di vivere” e “Renato Serra sportivo”. Vinse numerosi premi, tra i quali il premio St. Vincent nel 1963 e il Timone d'oro per una vita dedicata al ciclismo.


Didascalia:

Ecco nelle foto, dall'alto in basso, Giuseppe Ambrosini in veste di comandante del Giro, che egli diresse dal 1949 al 1960, e quindi con Coppi, con Binda impegnato alle bocce, e con Vincenzo Torriani alla consegna del Timone d'oro. Avvocato, uomo di cultura, amico di scrittori come Renato Serra, cesenate d'adozione, uomo di terra che amava il mare e scrutava il mare dalla collina di Settecrociari dove abitava, Giuseppe Ambrosini aveva scelto il ciclismo per raccontare l'uomo. Era, il ciclismo, lo sport d'elezione di un uomo che di sport ne aveva praticati molti, era lo sport che per lui poteva meglio esprimere il senso di rivincita dell'uomo attraverso uno dei mezzi più accessibili, la bicicletta. E l'uomo, il campione, divenuto tutt'uno con la bicicletta, Giuseppe Ambrosini aveva analizzato da studioso unico e incomparabile. Da uomo colto, aveva impresso al ciclismo una svolta, narrandolo e sezionandolo. Con lui, il ciclismo, da sport primitivo ed eroico di pochi, è diventato un fatto tecnico e una moderna espressione atletica.