Ai miei tempi

Giuseppe Ambrosini esplora tutto, saluta tutti
(un modo umano e giornalistico di togliere la polvere a ricordi che son pieni di strade piene di polvere)

 

Nell'avvicinarsi del Giro d'Italia sono invitato ad una rievocazione dei ricordi che alla corsa mi legano (una cinquantina di volte l'ho seguita) ed io accetto ben volentieri l'invito perchè mi offre l'occasione di vivere intimamente con la nostalgia di un passato denso di lavoro, disagi e rischi, ma non meno di gioie, insegnamenti e soddisfazioni, e di farvi conoscere un mondo sportivo così diverso da quello di oggi, quello che gli indimenticabili amici e colleghi Casalbore, Roghi e Vergani hanno saputo presentare e far rivivere in viste di aristocrazia letteraria e che io ho cercato di illustrare e commentare sul piano cronistico atletico e tecnico.
Fabbricato in tutta fretta – per precedere una analoga iniziativa giornalistica concorrenziale -, il 7 agosto 1908, a livello di idea per l'anno dopo, il Giro d'Italia nacque già gigante, e appunto l'anno dopo assunse presto forme ed espressioni che allora parvero oltre le misure umane. Basta, per giustificare questo giudizio, pensare a quello che fu la quinta edizione del Giro, quella del 1913, la prima che seguii. Ecco alcuni dei dati in proposito, che oggi sembrano quasi irreali: otto tappe, di distanza media di 395 chilometri, massima 430, minima 329; media oraria totale della corsa km. 23,347; media più alta di tappa km. 27,459; media più bassa di tappa km. 22,123; tempo di tappa massimo 19h 20' 47”, minimo 12h 50' 27”; partiti 81 ed arrivati 8; distacco dal primo (calzolari) al secondo (Albini) 1h 55' 26”.
Cifre come queste oggi non sarebbero neppure pensabili e dimostrano quanto il ciclismo di allora fosse diverso da quello di oggi, per ragioni da attribuirsi, oltre al progresso stradale e meccanico (specie al cambio di velocità e di ruota), anche all'evoluzione del modo di sviluppare la potenza, in un primo tempo più in forza che in agilità, poi viceversa, e al passaggio da quella che i francesi dicono “endurance”, per intendere la tenuta allo sforzo di lunga durata, ma di moderata intensità, alla vera resistenza, alla capacità di sostenere uno sforzo violento, ma breve e ripetuto, come lo scatto, oggi arma indispensabili in corsa, prima per la selezione anche in piano, poi per la soluzione sul traguardo.
L'evoluzione del modulo di corsa è avvenuta insieme a quella dei criteri organizzativi e dell'ambiente, ispirati ad una concezione a mano a mano più umana e civile della competizione ciclistica.
Riandando ai primi Giri, ricorderò che l'enorme distanza di tappa, su strade polverose, comportava la partenza nelle ore piccole, il che voleva dire per tutti i “girini”, compresi noi giornalisti, interrompere sul più bello, o addirittura saltare, il sonno.
Il giorno della corsa, poi, via alle tre di notte in auto, ma non di quelle auto comode chiuse e sicure di oggi, bensì aperte al sole ed al vento e facili a bollire e sbuffare, con minaccia di lasciarci appiedati in mezzo alle montagne. Naturalmente nostra invisibile compagna, tormentosa e pericolosa, era la nuvola di polvere sollevata dalla carovana sulle strade ancora quasi tutte sterrate, nuvola dalla quale, nonostante occhiali e maschere, non ci si poteva salvare, così che si arrivava con la gola arsa, gli occhi arrossati e la faccia che sembrava di gesso.
Ma le delizie dei giornalisti non finivano al traguardo, dove comincia l'assillante lavoro della stesura e della trasmissione del servizio al giornale. Questa ultima fatica oggi è rapida e facile; ma con i telefoni di allora c'era da aspettare un'ora e anche più per avere la comunicazione e spesso voleva dire sgolarsi per dettare, sempre sotto l'assillo dell premura, due o tre colonne di servizio. A questo proposito, voglio ricordare un fatto che è rimasto unico nella storia del giornalismo italiano. Ero inviato de “La Stampa” al Giro e l'amministratore del giornale, l'indimenticabile amico Cesare Fanti, grande sportivo, maestro di organizzazione giornalistica, fondatore con Casalbore di “Tuttosport”, per assicurarsi la più sollecita trasmissione dei servizi degli inviati al Giro, mandò al seguito della corsa un carro con radio trasmittente, che precedette di molti anni il servizio pubblico promosso in seguito da Torriani.
A conferma dell'eccezionale bravura inventiva e organizzativa del Fanti, e della sua sportività voglio aggiungere che si devono a lui le prime telefoto pubblicate da un giornale italiano. Furono quelle relative alla partita di calcio Italia-Inghilterra a Londra, finita con il risultato di 3 a 2 per gli inglesi: una partita alla quale “La Stampa” dedicò tutte le prime tre pagine, con grandi telefoto e i servizi di fondo del sottoscritto e del corrispondente londinese. Naturalmente questo servizio funzionò in seguito anche nel Giro.
Infine, Fanti, quando ancora nessun giornale aveva l'attrezzatura per le foto, si valse dell'opera del giornalista aviatore Maner Lualdi, il quale, subito dopo l'arrivo della corsa, prendeva il volo per Torino con le foto della giornata, che il giorno dopo illustravano i relativi servizi degli inviati. Credo di poter affermare che non solo allora, ma neppure oggi, altri abbia raggiunto tale perfezione giornalistica in campo sportivo.
La segreteria del giornale doveva, naturalmente, provvedere a risolvere in tempo il problema dell'alloggio degli inviati; la carovana del Giro, anche se nel primo decennio non fu numerosa come attualmente, comprendeva, tra corridori e addetti ai servizi, circa 200 persone, per le quali l'attrezzatura alberghiera, a quei tempi, specie nel Meridione, non era sufficiente. Cosicchè furono non poche le volte in cui dovetti approfittare dell'ospitalità del sindaco o curato o di n qualsiasi cittadino, o adattarmi a dormire nella camerata di un collegio o di una caserma o in un posto di soccorso. Così, una volta a Campobasso, mi capitò di dover dormire in una branda del maresciallo dei carabinieri; avrei voluto guardarmi in faccia, quando, all'alba aprendo gli occhi, la prima cosa che vidi fu una bandoliera bianca con la pistola appesa al muro sopra la mia testa.
Ma il giornalista al Giro ha spesso anche i suoi momenti e giorni drammatici, oltre ai momenti di brivido per seguire i corridori nelle tortuose e lunghe discese.
Ricordo, per esempio, la tappa al cui arrivo mancava Giuseppe Azzini, né alcuno sapeva dove era andato a finire. Dopo un paio di ore di attesa si organizzò un servizio notturno di ricerca nella campagna, e finalmente dopo mezzanotte riuscimmo a ritrovare lo scomparso corridore adagiato nella lettiera della stalla di un contadino, sfinito e febbricitante per l'immane fatica sostenuta.
Questa è stata per cinquanta anni e più la mia vita al seguito del Giro; vita randagia che mi ha fatto conoscere tutta l'Italia, vita disagiata ma vissuta in allegrezza, vita che invidio ai giovani che la vivono oggi, vita, insomma, che sogno ancora e rimpiango di non poter vivere più.
Giuseppe Ambrosini